Le 30mila lavandaie schiave d’Irlanda: un’oscura storia dimenticata
Non ci sono colpevoli, non ci sono scuse ufficiali e neanche risarcimenti per le oltre 30mila lavandie schiave d’Irlanda. Il Comitato contro le torture delle Nazioni Unite nel 2011 aveva chiesto di aprire un’inchiesta ma, ad oggi, nulla si sa di come siano andate le cose. Dal 1922 fino al 1996, decine di migliaia di donne, di qualsiasi estrazione sociale, età e istruzione, sono finite nelle mani di quattro ordini religiosi, chiuse nelle case magdalene a lavare gratuitamente i panni per le suore. E in questo ambiente ermeticamente ed emotivamente fuori dal mondo reale, hanno subito abusi psicologici e sessuali, violenze e sfruttamenti.
Le donne perdute nelle case magdalene
La causa cattolica osservante non aveva categorie preferite o stabilite, qualsiasi donna, di qualsiasi estrazione sociale, poteva finirci dentro senza poter dire nulla; dalla madre nubile alla giovane troppo bella e corteggiata, dalla piccola ladruncola di quartiere alla bambina con un carattere troppo vivace. E c’era anche chi veniva richiusa poiché la sua unica ‘colpa’ era quella di essere stata violentata. Mary-Jo McDonagh è stata una di queste donne, una fra le pochissime che hanno deciso di strappare via il velo di omertà che aleggiava attorno a questi quattro ordini religiosi. All’interno di quelle case, che dovevano rappresentare un’isola di salvezza e redenzione, ha subito gravi abusi. Quasi sempre queste ragazze e donne venivano espulse dalla comunità e dalla loro famiglia, e finivano rinchiuse a lavare gratuitamente i panni per le suore.
La scoperta e le denunce
La prima volta che si ebbe notizia di queste case era il 1993; da quel momento Peter Mullan nel 2002 ci fece un film intitolato The Magdalene Sisters, condannato dal Vaticano. Sono stati prodotti libri, poesie, racconti, opere teatrali; Joni Mitchell ci scrisse anche una canzone, contenuta nell’album Turbolent Indigo del 1994, Steven O’Riordan nel 2009 ci fece un documentario nel quale vennero raccolte tantissime testimonianze in prima persona. Nonostante le denunce, i film, le canzoni e il grido di aiuto di alcune di quelle donne scampate ai soprusi, lo Stato irlandese ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Nessuno chiede scusa, nemmeno dopo che nel 2011 il Comitato contro le Torture delle Nazioni Unite chiese di aprire un’inchiesta sul caso. Claire McGettrick del Jfm – Justice for Magdalenes – disse: “Il governo continua a non scusarsi, a non ordinare un’inchiesta, a non risarcire le donne, perlomeno con una pensione, per quello che noi definiamo un sistema di tortura durato settant’anni, del quale a sua volta l’Irlanda dovrebbe chiedere conto ai quattro ordini religiosi che gestivano le lavanderie“. Il 15 giugno 2016 è stato lanciato un progetto di assistenza alla Commissione di Investigazione della giustizia che fornisce aiuto nella ricerca di testimonianze degli eventi accaduti nelle case magdalene.
Ci sono ancora donne in quei quattro conventi
The Sisters of Mercy, The Sisters of Charity, The Good Shepherd Sisters, The Sisters of Our Lady of Charity; i nomi dei quattro conventi ispirano serenità, grazia, benevolenza, tutte caratteristiche in netta contrapposizione con la storia narrata. Nonostante qualcuno e qualcosa si siano mossi, ci sono ancora donne rinchiuse in quelle case a condurre una vita da schiave lavandaie; i loro parenti non sanno nulla, non parlano e non denunciano e del loro destino non si conosce nulla, anche perché quando muoiono e quando morivano, venivano seppellite senza un nome sulla tomba e questo fatto è stato accertato nel 1993. Patricia Burke-Brogan nei primi anni ’90 denunciò tutto con la sua opera commedia dal titolo Eclipsed, opera nella quale descrisse trent’anni di vita vissuti all’interno delle case magdalene come lavandaia schiava. Se tornassimo indietro, a quasi un secolo fa, vedremmo delle prostitute; le maddalene lo erano davvero e venivano inviate dalle suore affinché promuovessero se stesse nel cammino verso la purificazione, trasformandosi così in Sorelle di Santa Margherita.
La Chiesa non ammette le sue responsabilità
Dalle prostitute alle donne perdute; così i quattro conventi negli anni cominciarono a popolarsi di donne comuni, madri, bambine, ladre, scappate di casa. La polizia irlandese e gli assistenti sociali dello Stato le portavano lì quando dovevano scontare qualche piccola pena sospesa: finivano a lavare i panni, arricchendo qualcun’altro. C’era, infatti, chi lucrava su questa schiavitù contemporanea; lo Stato irlandese ne era commitente e inviava i panni in arrivo dagli ospedali e dall’esercito, le suore potevano così riempirsi le tasche e ricevere ottime remunerazioni. La manodopera, d’altronde, era gratuita e c’era solo il vitto e l’alloggio come spesa, entrambi scarsi e ai limiti dei diritti umani. Sean Brady, nel 2010 cardinale e primate della Chiesa d’Irlanda, poi dimesso, ricevette una delegazione del Jfm e rispose così alle loro domande: “Per gli standard di oggi, molto di quel che accadde all’epoca è difficile da comprendere“. Per lui il problema erano i quattro ordini religiosi e non la Chiesa.
Lo Stato assente nega ogni attribuizione di colpa
Come se non bastasse, anche lo Stato irlandese ha negato e nega ancora oggi ogni coinvolgimento e ogni tentativo di risarcimento delle vittime, di quelle 30mila schiave lavandaie. Per lo Stato irlandese quei soprusi e gli abusi, sono avvenuti tanto tempo fa e in istituzioni private; la maggior parte delle donne e delle bambine ci sarebbero entrate di loro volontà in quei conventi, anche grazie al consenso dei parenti. Secondo la controparte, inoltre, solo una lavanderia veniva utilizzata per la carcerazione preventiva e solo per pochi giorni alla volta. Gli ispettori non avrebbero mai riscontrato abusi di alcun tipo. Ancora oggi si attende giustizia, da ormai più di vent’anni questa storia oscura viene sepolta, dimenticata e ogni volta che provano a raccontare la verità, tutte quelle donne subiscono il peso dell’omertà di Stato.
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