Ondata di delocalizzazioni: si chiude in Italia per aprire all’estero
Non si arresta l’ondata di delocalizzazioni nel nostro paese. Tra il 2009 e il 2015 l’aumento del numero delle partecipazioni all’estero delle imprese nostrane è aumentato del 12,7 per cento, passando da 31672 unità fino al 2010, alle 35684 di questo ultimo decennio. A fare emergere questi dati è stato l’Ufficio studio della Cgia sulla Banca dati Reprint dell’Ice e del Politecnico di Milano. Nonostante questo, il numero di occupati all’estero nelle imprese a partecipazione italiana è calato del 2,9 per cento che corrisponde a una diminuzione di almeno 50 mila unità.
Delocalizzazioni nonostante il fatturato in aumento
Il dato più importante, un vero e proprio ossimoro se si pensa a quante aziende stiano chiudendo in Italia per aprire all’estero, riguarda proprio il fatturato; l’aumento è stimato all’8,3 per cento, che in termini assoluti sul giro di affari si attesta a 40 miliardi di euro, con un picco tra il 2015 e il 2018 pari 520,8 miliardi di ricavi da parte delle aziende straniere a partecipazione italiana. Come si evince dalla tabella sottostante relativa alle partecipazioni italiane all’estero, è il settore manifatturiero quello maggiormente interessato, seguito dal settore commercio con imprese costituite da filiali e joint venture commerciali.
Tra i paesi più appetibili ci sono gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti rimangono ancora un obbiettivo ambito dalla maggior parte delle imprese italiane soggette alla delocalizzazione. Le partecipazioni italiane alle aziende americane sono state 3300 nel 2015, a seguire:
- Francia con 2551 imprese
- Romania con 2353 imprese
- Spagna con 2251 imprese
- Germania con 2228 imprese
- Regno Unito con 1991 imprese
- Cina con 1689 imprese
Al contrario di ciò che si pensa, infatti, non sono i paesi dell’est le mete più ambite dagli imprenditori italiani. Come ha sottolineato il segretario della Cgia Renato Mason: “Chi pensava che la meta preferita dei nostri investimenti all’estero fosse l’Europa dell’Est rimarrà sorpreso. A eccezione della Romania, nelle primissime posizioni scorgiamo i Paesi con i quali i rapporti commerciali sono da sempre fortissimi e con economie tra le più avanzate al mondo“. In maggioranza sono le aziende lombarde a spostarsi all’estero, seguite dal Veneto, dall’Emilia Romagna e dal Piemonte. Come sottolinea Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia: “Le aziende presenti nelle regioni settentrionali dell’Italia presentano livelli di disoccupazione quasi fisiologici e sono considerate, a tutti gli effetti, aree con livelli di industrializzazione tra i più elevati d’Europa“.
Perché le aziende italiane optano per la delocalizzazione?
Una domanda complessa alla quale è difficile rispondere, anche se è possibile farsi un’idea. Paolo Zabeo spiega infatti: “Purtroppo non ci sono statistiche complete in grado di fotografare con precisione il fenomeno della delocalizzazione produttiva. Infatti, non conosciamo, ad esempio, il numero di imprese che ha chiuso l’attività in Italia per trasferirsi all’estero. Tuttavia, siamo in grado di misurare con gradualità diverse gli investimenti delle aziende italiane nel capitale di imprese straniere ubicate all’estero. Un risultato, come dimostrano i dati riportati in seguito, che non sempre dà luogo ad effetti negativi per la nostra economia. Infatti quando la fuga non è dettata da mere speculazioni di natura opportunistica, queste operazioni di internazionalizzazione rafforzano e rendono più competitive le nostre aziende con ricadute positive anche nei territori di provenienza di queste ultime“.
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